Beethoven – Quartetti per archi e pianoforte
Ludwig van Beethoven 1785
I Quartetti per fortepiano e archi
- Quartetto WoO. 36 n. 1 in mi bemolle maggiore
Adagio assai Allegro con spirito Tema. Cantabile – Var. I – VI – Tema – Coda
- Quartetto WoO.36 n.2 in re maggiore
Allegro moderato Andante con moto Rondo. Allegro
- Quartetto WoO.36 n.3 in do maggiore
Allegro vivace Adagio con espressione Rondo. Allegro
IL Tetraone:
Ana Liz Ojeda – violino
Alice Bisanti – viola
Paolo Ballanti – violoncello
Valeria Montanari – fortepiano
I quartetti per fortepiano e archi del Beethoven quindicenne
Sebbene non così precoce compositore come Mozart — che a sei anni scriveva pezzettini piacevolissimi e a otto quei piccoli capolavori che sono le Sonate K.10-16 Beethoven produsse verso i dodici quindici anni alcuni lavori sui quali la critica, come vedremo, potrebbe benissimo soffermarsi indipendentemente dalla loro attribuzione ad un fanciullo chiamato Beethoven, ma che, essendo per l’appunto opera di Beethoven fanciullo, vengono studiati con molta attenzione e sono stati non di rado eseguiti. A meno di dodici anni di età Beethoven scriveva le Variazioni su una marcia di Dressler per pianoforte, tra i dodici e i tredici tre Sonate per pianoforte, a quattordici un Concerto in mi bemolle maggiore per pianoforte. A quindici anni componeva tre Quartetti per pianoforte, violino viola e violoncello che non vennero allora pubblicati, al contrario di quanto era avvenuto con le variazioni e con le Sonate, e che apparvero in edizione a stampa solo nel 1828, presso l’editore Artaria di Vienna. Non essendo stati classificati da Beethoven nel catalogo delle sue opere, i tre Quartetti furono elencati nella sezione “Opere senza numero d’opera” (Werke ohne Opuszahlen) del fondamentale catalogo beethoveniano Kinsky-Halrn, con il numero d’ordine 36: sono dunque noti come Quartetti VOo 36 n. 1, 2 e 3. Tutte le prime composizioni di Beethoven nascono sotto il segno del pianoforte: Beethoven era infatti un pianista di istinto, di virtuosismo ricco e impetuoso, ed intendeva formarsi il repertorio del pianista-compositore, figura affermatasi negli anni tra il 1760 e il 1780 con Johann Christian Bach, Schobert, Htillmandel, Schroeter, Mozart, e soprattutto con Clementi. Il quartetto per pianoforte e archi non apparteneva però ad un genere consacrato e di lunga tradizione. Il primo esempio di quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello dovrebbe risalire a circa il 1778: e il Quartetto in mi bemolle maggiore dell’abate Joseph Vogler, che fu pubblicato a Parigi nel 1781 e che fu probabilmente noto a Beethoven. Non si conoscono esempi analoghi fino al 1785; ciò non significa che non ne siano esistiti in assoluto (i repertori bibliografici settecenteschi sono lacunosi), ma basta a dimostrare che il genere non si era ancora affermato. Erano invece comuni, diffusissime, sia le sonate per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello, sia le riduzioni per pianoforte e complesso d’archi (più spesso due violini e basso) di concerti per pianoforte, riduzioni che potevano essere eseguite anche nella formazione minima di pianoforte e tre archi. Nei suoi tre quartetti Beethoven oscilla quindi fra la tradizione della sonata con accompagnamento e la tradizione del concerto, riuscendo solo a tratti ad individuare la nuova forma del quartetto concertante. Ciò non toglie però che Beethoven, a quindici anni, non sapesse dar prova di una eccezionale sensibilità storica, tentando appunto un genere nuovo, per il quale egli, fanciullo, non poteva assumere un modello sicuro, ma le cui potenzialità lo stimolavano alla creazione. I problemi compositivi del quartetto per pianoforte e archi furono poco più tardi risolti da Mozart, che nell’autunno del 1785 compose il Quartetto in sol minore K 478 e nel giugno del 1786 il Quartetto in mi bemolle maggiore K 493. Mozart era sui trent’anni, ed aveva raggiunto la piena maturità artistica. I tre Quartetti di Beethoven, non paragonabili ai due di Mozart, testimoniano tuttavia uno spirito di ricerca che li renderebbe comunque degni di passare alla storia, anche se non fossero opera di un ragazzo, e anche se quel ragazzo non si fosse chiamato Beethoven. Il Quartetto op. 16, come diremo meglio poi, non e una composizione originale per quartetto con pianoforte, ma una versione alternativa del Quintetto op. 16 per pianoforte e fiati. Beethoven non scrisse altri quartetti per pianoforte e archi e quindi le sue “esperienze sul genere” restano esclusivamente legate al periodo della sua prima formazione.
Quartetto WoO 36 n. 1
Adagio assai (mi bemolle maggiore, 2/4) – Allegro con spirito (mi bemolle minore, 3/4) Thema. Cantabile (mi bemolle maggiore, 2/4) – Var. I. — Var. II. – Var. III. Adagio – Var. IV. Tempo I – Var. V. (mi bemolle minore) — Var. VI. (mi bemolle maggiore) – Tema. Allegretto – Coda.
Nel suo primo Quartetto Beethoven adotta lo schema formale della composizione in due tempi, con adagio introduttivo al primo tempo. Si tratta di uno schema rarissimo, che Beethoven molto probabilmente mutuò dalla Sonata per violino e pianoforte K 379 di Mozart (pubblicata nel 1781), ma che avrebbe successivamente ripreso nelle Sonate per violoncello e pianoforte op. 5. Al contrario di quanto avviene con gli adagi introduttivi delle composizioni in tre tempi, l’adagio introduttivo delle composizioni in due tempi può essere molto ampio. L’Adagio del Quartetto WoO 36 n. 1 e di settanta battute, suddiviso in due parti, con ripetizione della prima parte. Le proporzioni monumentali dell’adagio introduttivo, che permettono di affermare la tonalità generale di mi bemolle maggiore, consentono a Beethoven di impiantare l’allegro nella cupa tonalità di mi bemolle maggiore. L’Allegro é di taglio nettamente sinfonico, quasi un tempo di sinfonia Sturm und Drang; la scrittura strumentale, che nell’Adagio era impostata sulle masse contrapposte del pianoforte e degli archi, a volta a volta protagoniste o accompagnanti, nell’allegro è a blocco unico, molto compatta. La forma e quella della cosiddetta forma-sonata (esposizione, sviluppo, riesposizione) ma, al contrario di quanto avviene nella forma-sonata più tipica, l’esposizione comprende un secondo tema suddiviso in due gruppi tematici. Il primo tema è in mi bemolle minore, il secondo in si bemolle minore. Mentre nell’Adagio introduttivo e nell’esposizione dell’Allegro si notano le felici capacita di invenzione tematica e la serrata forza discorsiva del Beethoven quindicenne, nello sviluppo si nota la sua inesperienza di compositore; lo sviluppo è infatti brevissimo, e consiste soltanto in una specie di intermezzo molto elementare, prima della riesposizione. La riesposizione non presenta caratteristiche degne di nota. Per il secondo tempo, come Mozart nella già citata Sonata K 379, Beethoven sceglie la forma del tema con variazioni. Il tema e esposto dal pianoforte, accompagnato dagli archi in modo molto schematico, e le prime quattro variazioni sono organizzate secondo un “cerimoniale”, più che secondo un’idea formale. In ciascuna di esse è protagonista uno strumento: nella prima il pianoforte, nella seconda il violino, nella terza la viola, nella quarta il violoncello. La quinta e la sesta variazione tendono invece a mettere in mostra il virtuosismo del pianista: grande agilità della mano sinistra nella quinta (in mi bemolle minore), agilità della mano destra nella sesta. Il tema viene quindi ripreso in una strumentazione diversa da quella dell’inizio, e cioè con gli archi non più in funzione di semplice accompagnamento. Segue una breve coda, ed il secondo tempo — inaspettatamente, dopo tanto sfoggio di virtuosismo — termina in “pianissimo”.
Quartetto WoO 36 n.2
Allegro moderato (re maggiore, tempo ordinario) – Andante con moto (fa diesis minore, 3/4) Rondò.Allegro(remaggiore,6/8).
Lo schema formale del secondo Quartetto è quello, usuale, in tre tempi. Primo tempo in forma-sonata, anche in questo caso con secondo tema articolato in due gruppi tematici. Lo sviluppo e proporzionalmente assai più ampio di quanto non fosse nel primo Quartetto, ma anche in questo caso, più che di sviluppo dei temi esposti, si tratta di intermezzo che collega esposizione e riesposizione. La riesposizione è seguita da una coda: compare qui l’idea formale della coda che nell’equilibrio architettonico del primo tempo serve a bilanciare la brevità dello sviluppo, idea che diverrà più tardi prediletta da Beethoven. Il primo tempo tutto condotto con ritmi scattanti e balzanti, tutto brillante ed estroverso, si spegne su due accordi lungamente tenuti. (“mancando” e “pianissimo”, dice la didascalia), in rapporto cosiddetto di “cadenza plagale”, assai più raro e meno perentoriamente conclusivo del consueto rapporto di “cadenza perfetta”. La tonalità del secondo tempo, fa diesis minore, è abbastanza sorprendente, perché dopo un primo tempo in re maggiore l’ascoltatore si sarebbe aspettato un secondo tempo in sol maggiore o in la maggiore, o tutt’al più in si minore o in mi minore. La successione delle tonalità dà anche in questo caso, come nel primo Quartetto, un colore tonale insolito e personale alla composizione. Anche la forma è insolita perché, al posto della consueta forma di canzone tripartita, Beethoven sceglie la forma-sonata, in una versione – riesposizione senza il primo tema – che molti anni più tardi diverrà basilare in Chopin. Beethoven introduce inoltre la variante timbrica del pizzicato degli archi (appena accennata, e solo in funzione di accompagnamento, nella prima variazione del secondo tempo del Quartetto n. 1 e nel primo tempo del Quartetto n. 2). Tutte queste caratteristiche testimoniano una volontà di ricerca, un’ansia di andare oltre il consueto ed il comune, che è ben tipica di Beethoven, ma che finisce per creare problemi compositivi non ancora risolubili dal ragazzo di quindici anni. Cosicché, a parer nostro, la qualità musicale della composizione non sembra corrispondere alle ambizioni ed all’importanza dei mezzi che vi vengono messi in opera. Il terzo tempo è un rondò, basato su un tema principale che preannuncia il tema popolaresco e scanzonato del finale della Sonata per pianoforte e violino op. 12 n. 1. Lo schema formale è quello, solito, del rondò a tre temi e sette episodi. Anche il terzo tempo, come il primo, finisce con un piccolo colpo di scena: il pianoforte, che aveva dominato con la sua agilità tutto il brano, non suona nelle ultime battute. E evidente che Beethoven, avendo inteso dare al terzo tempo il carattere di finale di concerto per pianoforte, preferisce terminare, come si usava nei concerti, senza la partecipazione del solista.
Quartetto WoO 36 n. 3
Allegro vivace (do maggiore, tempo ordinario) – Adagio con espressione (fa maggiore, 3/4) Rondò. Allegro (do maggiore, tempo tagliato)
Il terzo Quartetto, e in particolare il primo tempo, dimostrano un’influenza delle sonate brillanti di Muzio Clementi: di tipo nettamente clementino e il primo tema del primo tempo, e la scrittura strumentale, basata sul predominio virtuosistico del pianoforte, ricorda quella delle sonate di Clementi con accompagnamento ad libitum di violino e violoncello. Gli ascoltatori riconosceranno facilmente due elementi tematici che, lievemente modificati, ritorneranno nel primo tempo della Sonata per pianoforte op. 2 n. 3, ed un tema, in sol minore, che ritornerà quasi identico nello stesso primo tempo della Sonata op. 2 n. 3. Il primo tempo del Quartetto è in forma-sonata, con due gruppi tematici a formare il secondo tema. Molto interessante lo sviluppo. Beethoven lo inizia al modo di un intermezzo, ma ne blocca subito il corso, dopo sole sei battute, per attaccare un vero e proprio sviluppo dei temi esposti nella prima parte. Di eccellente effetto e anche la transizione dallo sviluppo alla riesposizione, in un misterioso episodio a canone di otto battute. La riesposizione e abbreviata. Le proporzioni architettoniche del primo tempo (67 battute di esposizione, 43 di sviluppo, 46 di riesposizione) sono molto equilibrate, ed il progresso nel dominio della forma-sonata, rispetto ai primi due Quartetti, appare decisivo. Il secondo tempo è in forma di canzone, ed è basato su un tema già cosi tipicamente beethoveniano da poter essere ripreso, dieci anni dopo, nella Sonata per pianoforte op. 2 n. 1. E’ da notare, nella parte di mezzo, l’impiego solistico del violino e poi della viola: è da notare in quanto, come abbiamo avuto occasione di accennare, nei tre Quartetti il ruolo largamente preponderante è affidato al pianoforte. Il rondò finale non presenta caratteristiche formali particolari: è un rondò a tre temi e cinque episodi, formalmente più sommario del rondò del secondo Quartetto, e che si affida, più che all’elaborazione compositiva, alla forza trascinante del ritmo, in un andamento quasi da moto perpetuo.
Piero Rattalino